“Miles tu sei… posh?”. Quest’aggettivo si addice decisamente di più al tono del film rispetto al titolo originale, meno evocativo e più descrittivo. Posh indica una tendenza, un’inclinazione dell’animo, un capriccio d’élite, un vizio, che in questo caso ha tutto il diritto d’essere definito capitale.
In una Oxford un po’ ingrigita, che sembra lontana dalle maestosità e dalle solennità dei tempi di John L. Austin o di C.S. Lewis, un gruppo di studenti ammessi alla prestigiosa università si costituisce nello storico “Riot”, uno dei club accademici più esclusivi. Uno degli ultimi aspiranti membri è il Miles a cui viene attribuito, in parte ingiustamente, l’ingombrante appellativo. Ciò che lo spinge ad entrare in questo gruppo non è quel sentimento di superiorità e quel vago senso di darwinismo sociale che costituiscono invece il collante degli altri affiliati ma una semplice euforia giovanilistica e ingenuamente spaccona nei confronti della realtà e del futuro, che crede di poter esprimere al massimo in questo ambiente d’elezione. Egli, infatti, si rivelerà ben presto l’anello debole di questa catena fatta di rancore e disprezzo verso tutti coloro che vengono pregiudizialmente considerati inferiori.
Tutto Il film vorrebbe concentrarsi su questa rappresentazione sociale, sui suoi radicamenti culturali e politici, sui suoi atteggiamenti emotivi e soprattutto sulla sua composita iconografia. Il tutto produce però un risultato non particolarmente convincente; l’operazione sembra, infatti, non riuscire pienamente nel suo intento. La narrazione, probabilmente più solida e di spessore nella versione teatrale originaria, ne risente nella sua riduzione cinematografica, trasmettendo allo spettatore un senso di frettolosità e a tratti di superficialità. Quelli che vorrebbero essere esempi di dotte dispute accademiche e moderni simposi si riducono in ultima istanza a banali e sommarie campionature di concetti non approfonditi, di contrapposizioni ideologiche stereotipate e di retorici luoghi comuni. Si ha questa sensazione quando si assiste alla discussione sul piano Beveridge e sulla politica sociale inglese: il breve e infelice scambio di battute tra gli interlocutori non pare contribuire a rinforzare lo spessore psicologico e a caratterizzare meglio le ragioni culturali della visione dei membri del gruppo, ma la banalizza facendola scadere in un’ingenua e ridicola invettiva contro la “povertà”. Questo causa ciò che, più di tutto, del film contribuisce a mancare d’efficacia: non si riesce fino in fondo ad immedesimarsi con questi personaggi, sembrano essere troppo poco affascinanti e convincenti perché si possa anche solo per un momento essere dalla loro parte. Ci si vede così costretti a parteggiare per quel personaggio – non certo fondamentale – del proprietario di ristorante, dando in questo modo al film un tono pedagogico stucchevole, che dubito potesse rientrare nelle intenzioni degli autori.
Enrico Zimara