Inizia come un filmino di famiglia, alternato a scarabocchi animati, la terza opera di Jeremiah Zagar, giovane regista americano segnalatosi qualche anno fa con In a Dream, il potente documentario sul padre artista. Per la sua prima opera di finzione – presentata al Sundance Film Festival nel 2018 – Zagar sceglie di ispirarsi all’autobiografico libro We the Animals di Justin Torres e di girare su pellicola 16 mm per non perdere in intimità e calore cromatico.
Quando eravamo fratelli racconta di una famiglia portoricana che abita in una casetta isolata nella periferia dello stato di New York. In questo luogo immerso tra boschi e natura vivono liberamente e selvaggiamente i tre fratelli Manny, Joel e Jonah, mentre i giovani genitori si amano fortemente e, altrettanto fortemente, litigano per problemi di soldi e di lavoro. T r a fughe, risse, furti ed esplorazioni, i tre ragazzi crescono e maturano, allontanandosi progressivamente gli uni dagli altri col finire dell’infanzia; soprattutto il piccolo Jonah che, distaccandosi dall’ideale mascolino fortemente esplicitato dal padre, affronta un differente cammino.
Jeremiah Zagar costruisce il suo film come una “favola reale” sospesa nel tempo, in cui poetici tramonti e affascinanti riprese in pieno stile malickiano fanno da cornice ad una storia materica, concreta, a tratti brutale ed estremamente fisica. Manny, Joel e Jonah vivono perlopiù seminudi e senza alcun controllo da parte degli adulti; battono con le mani sui tronchi e sul tavolo di casa come fosse un rito tribale; proteggono la famiglia-branco nei momenti di pericolo, scagliandosi contro l’amato padre nei suoi frequenti impulsi violenti; lanciano sassi contro le macchine che ogni tanto passano, mentre attorno il mondo va avanti seguendo le classiche regole occidentali. E in mezzo a loro si trova la macchina da presa del regista, tenuta rigorosamente a spalla e posizionata alla stessa altezza dei ragazzi.
È il desiderio animale di vita a sprigionare fuori da ogni sequenza, desiderio rafforzato ancor più dal ricorrente “we wanted more” sussurrato fuori campo, e dai disegni frenetici, passionali, del piccolo Jonah, che, grazie alle animazioni di Mark Samsonovich, si intrecciano alle riprese dal vero come commento e conferma. Il bimbo è, infatti, il vero fulcro del film: al contempo narratore e protagonista, voce sincera del branco, nonché, in fin dei conti, unico elemento fuori dal coro-famiglia.
È lui che vive gli episodi più magici (come la sequenza del volo); è lui che sperimenta concretamente le prime pulsioni sessuali; è lui che spesso guarda direttamente in macchina, rompendo la famosa “quarta parete”; è lui l’unico personaggio che rimane esteticamente bambino mentre gli altri attorno crescono ed invecchiano.
Marco Mastino