Il titolo del film, Palma d’Oro 2023, che fa eco a una pietra miliare appartenente al genere Legal drama (vale a dire Anatomia di un omicidio diretto nel 1959 da Otto Preminger), esplicita chiaramente l’essenza del lungometraggio: l’anatomia, ossia l’analisi profonda, precisa, puntuale, minuziosa e dettagliata, di una caduta mortale, quella di Samuel, avvenuta dall’ultimo piano dello chalet dove vive con la moglie Sandra, scrittrice di successo, il figlio Daniel, un bambino sensibile e intelligente, ipovedente a seguito di un incidente (un testimone oculare appositamente mancato, parrebbe), e il cane Snoop.
L’opera di Justine Triet è densa e intricata, affronta con i giusti tempi (che per i non amanti del genere potrebbero risultare eccessivamente lunghi) l’avventura processuale legata all’accusa di omicidio rivolta a Sandra e lo fa soffermandosi su differenti punti di vista. Non solo quelli dei protagonisti principali, la moglie e il figlio della vittima, anime ingarbugliate, ma anche quelli di coloro che orbitano attorno all’evento, attraverso i quali è possibile mostrare le varie e differenti versioni di una cronaca dei fatti la cui veridicità non è mai garantita. I tribunali, in assenza di prove schiaccianti e dati inconfutabili, sono come teatri, luoghi della rappresentazione e dell’interpretazione, dove giudicati e giudicanti ricoprono un ruolo e dove qualcuno può persino diventare un regista che con le sue visioni determina l’esito giudiziario e l’opinione pubblica attorno a una vicenda.
Nel film c’è anche molta letteratura mischiata all’avventura processuale e i romanzi divengono tracce, se non vere e proprie prove e testimonianze. La vita vera, nell’ambito di un’operazione di autofiction, non è più solo fonte di ispirazione ma offre contenuti da trascrivere e descrivere nei racconti di finzione, come se nulla potesse esserci di più interessante da raccontare se non la propria storia personale. Costantemente si saltella tra la dimensione pubblica (legale e mediatica) e lo spazio privato (intimo e dei legami familiari), così come, nella versione originale, si rimbalza dalla lingua francese a quella inglese. La macchina da presa si sofferma su molteplici controcampi (a fornire la prospettiva del bambino) e insolite prospettive (come quella del cane, a tutti gli effetti protagonista della narrazione). Il personaggio di Sandra è frutto del nostro tempo: ritrae una donna che non teme di essere giudicata fredda, egoista e immorale e che, nonostante le difficoltà legate all’essere genitrice e al relazionarsi in coppia, non rinuncia al proprio diritto all’autoaffermazione e alla realizzazione personale, non mette da parte se stessa e la sua professione come gli altri, primo fra tutti il marito forse, si aspetterebbero facesse.
Un Courtroom drama pluricandidato, fitto di dialoghi ma anche di silenzi, caratterizzato da lunghi piani sequenza e primi piani a camera fissa, in cui ciò che conta non è tanto lo svelamento del colpevole quanto l’affermazione dell’intrinseca ambiguità del reale e la complessità profonda dei legami interpersonali, nonché l’impossibilità di giungere, in tribunale come nella vita, a verità certe, assolute e condivise da tutti.
Loredana Iannizzi