Narvel Roth è un uomo schivo e taciturno che lavora da anni come giardiniere ai Gracewood Gardens, un’ampia e storica tenuta negli Stati Uniti del Sud appartenente alla ricca vedova Haverhill. Totalmente dedito alle piante e ai fiori, Roth vede la sua delicata routine interrotta dall’arrivo di Maya, giovane nipote della donna con alcuni problemi di droga che risveglierà il suo doloroso e violento passato.
Ideale conclusione di una trilogia sulla colpa e sulla redenzione – iniziata nel 2017 con First Reformed e proseguita nel 2021 con Il collezionista di carte – Il maestro giardiniere diventa per Paul Schrader la perfetta sintesi dei temi di tutta la sua carriera di regista e sceneggiatore. Roth necessita di ordine e di pace, di controllo e dell’osservanza di alcune regole, tanto nella vita quanto nel giardinaggio. Maya rappresenta invece il caos e l’imprevedibilità, l’impossibilità di tenere a bada la natura e il suo continuo manifestarsi. Schrader, cresciuto con una stretta educazione calvinista, sembra anche questa volta anticipare che il destino di ogni essere umano è già tracciato e definito senza possibilità di cambiare strada. Ma se il pessimismo dei suoi precedenti lavori – da Taxi Driver a Adam Resurrected passando per Affliction – si rivelava praticamente senza speranza, con il suo ultimo film – passato fuori concorso alla 79ª Mostra del cinema di Venezia dove Schrader ha ricevuto anche il Leone d’Oro alla carriera – il regista americano compie un grande passo avanti dandoci la possibilità di vedere uno spiraglio di luce nella desolante vita di Roth.
Ex suprematista bianco, ex membro di gruppi violenti e spietati, l’uomo sta provando a nascondersi sotto altra forma e altra vita, ma deve imparare a fare i conti con la propria essenza. Così come ogni pianta danneggiata può ricrescere e riprendersi, l’autore ci dice che allo stesso modo l’esistenza del suo protagonista ha in sé insita una fortissima capacità di sopravvivenza ed evoluzione. Capacità che diviene più forte in presenza di una qualche forma di cura, come quella dell’amore.
Film livido, circondato da una colonna sonora essenziale ma avvolgente, Il maestro giardiniere si staglia come opera fortemente politica ed emozionale, da un lato critica verso la deriva populista e sovranista che sta imperversando negli Stati Uniti e dall’altro inesorabilmente innamorata della vita che cresce e si sviluppa. Non può essere un caso il dettaglio di una siepe perfettamente potata e ordinata ma priva di lucentezza con a fianco la dirompente presenza delle cosiddette “erbacce”, manifestazione vegetale di un brulicare vitale e perpetuo che non è possibile arrestare.
Marco Mastino