Normale (2023), scritto e diretto dal regista francese Olivier Babinet, racconta l’adolescenza di Lucie, ragazza dalla fervida immaginazione, che vive in una piccola cittadina insieme al padre William. All’apparenza sembra tutto normale, Lucie, come ogni quindicenne, va al liceo, affronta la prima ‘’cotta’’ (non corrisposta) per un suo compagno di scuola, scrive i suoi pensieri su un diario che tiene nascosto da occhi maliziosi e ascolta musica con le sue cuffie. L’ascolta a tutto volume, è la sua amica più intima che l’accompagna sempre sia nei suoi tragitti verso scuola sia mentre scrive e sogna a occhi aperti.
Olivier Babinet decide di raccontare questo film adolescenziale diversamente da come aveva fatto in precedenza con il suo film Swagger (2017), abbandonando un racconto documentaristico e lasciando spazio a uno stile che richiama gli anni Ottanta: fotografia accesa, luci al neon, giacche in pelle, motorini in corsa, VHS e primi videogame sullo spazio. Nel mondo di Lucie sembra che il tempo si sia fermato a Footloose (Herbet Ross, 1984) e Grease (Randal Kreiser, 1979). Ma la cruda verità è che Lucie non è come i protagonisti Danny Zuko (Grease) e Ren McCormack (Footloose), perché invece di trascorrere una normale vita adolescenziale si trova ad affrontare mostri più grandi. Ed ecco che il suo mondo diventa anormale, un body-horror sulle note di Nightmare – Dal profondo della notte (Wes Craven, 1984) dove i suoi sogni a occhi aperti sono incubi fatti di sangue, occhi fuori dalle orbite e voci spettrali. Perché il Freddie Krueger di Lucie si chiama sclerosi multipla, che non solo le sta portando via l’adolescenza, ma anche il padre William a cui lei è estremamente legata. La sua è un’adolescenza rubata, in cui non solo deve provvedere agli studi, ma deve anche occuparsi della casa, del lavoro e del padre malato.
La sua normalità viene ribaltata soprattutto per il ruolo che riveste in casa, perché in realtà il vero adolescente è William, che difficilmente riesce a rivestire i panni di padre. Si rifugia nella sua stanza, si sveglia tardi la mattina e si rifiuta di prendere le medicazioni che diligentemente Lucie gli prepara giornalmente. Il suo comportamento all’apparenza infantile nasconde un grande dolore, quello di aver perso la moglie e della consapevolezza che anche lui stia per lasciare la figlia troppo presto. Perché la sclerosi multipla non lascia superstiti, è un mostro silente che lentamente priva William della libertà di essere vivo, autonomo e della gioia di essere padre.
Un racconto difficile questo, ma che Olivier Babinet rappresenta con la sua arte, il cinema. Il meta-cinematografico, ciò che c’è oltre il cinema, parla per i protagonisti, quando la realtà è troppo dura da ammettere. È la televisione a riferire allo spettatore della malattia, delle cause e delle contro-indicazioni e infine sono le visioni di Lucie che fanno intendere il continuo peggioramento di William. Il regista con questo non vuole fare un racconto distaccato, ma anzi vuole mettere in evidenzia quanto, a volte, sia difficile trovare la voce di fronte al dolore, alla malattia e alla morte.
Alice Zoja