Ispirata alla biografia Robert Oppenheimer, trionfo e caduta dell’inventore della bomba atomica di Kai Bird e Martin Jay Sherwin, l’ultima opera di Christopher Nolan racconta parte della vita del fisico Julius Robert Oppenheimer, concentrandosi in particolare sulle vicende legate all’ideazione e direzione del “progetto Manhattan” e su come queste abbiamo profondamente condizionato il resto della sua esistenza di scienziato e di uomo.
Il cinema, come tutte le arti, ha le sue regole e leggi, che fortunatamente poco hanno a che fare con quelle della geometria (almeno di quella euclidea, e tutta la filmografia di Nolan è lì a testimoniarlo). Il film corre infatti su due binari paralleli che spesso si intersecano fra loro e si sovrappongono, serratamente ma armonicamente, nel creare un intreccio che tiene assieme, nientemeno, la storia di un uomo con la storia delle sorti dell’umanità. Non si tratta di due filoni narrativi, ma piuttosto di due intenzioni registiche di fondo: da una parte, quella più scenografica e accattivante del ritrattista, impegnato nell’esaltazione estetica – senza però per questo declinare verso l’agiografia – dei vizi e delle virtù del genio che incanta, indispettisce e stupisce, dall’altra quella, probabilmente più a fuoco, del documentarista che, nel ricostruire gli eventi relativi alle udienze processuali, spinge la narrazione sin quasi ai confini della cronaca, cadenzando però con un montaggio e un ritmo tali da ricordare (ai lettori la decisione sulla bontà o meno del parallelismo) le pregiatissime sequenze di JFK di Oliver Stone.
Una considerazione a parte andrebbe fatta invece per quel tema che, apparentemente, sembra costituire l’asse portante della pellicola, se non addirittura esserne il suo motivo ispiratore, e cioè quello dei limiti etici della ricerca scientifica. Si potrebbe dire, a giudizio di chi scrive, che il merito principale di Nolan è quello di aver avuto la capacità – intenzionale o meno – di tenere in un certo senso “sospeso” questo problema, non lasciandolo mai annegare nel mare magnum della retorica edificante e della censura pedagogica.
Ciò che in effetti più sembra contare non è il giudizio morale sull’operato del protagonista, quanto piuttosto il “codice narrativo” attraverso cui questo può essere eventualmente declinato, dal protagonista stesso e dallo spettatore: per il primo, il codice è quello che colora di diverse sfumature e tonalità il turbamento interiore di un uomo che si interroga sulle conseguenze nefaste del proprio lavoro, per il secondo, quello che torce efficacemente il dilemma morale di Oppenheimer a favore di un intreccio mystery, con tanto di colpo di scena finale.
Enrico M. Zimara