Di rimpianto, senso di colpa e vergogna, la trasposizione cinematografica della vita dello scrittore Samuel Beckett, mai prima d’ora raccontata sul grande schermo, è pregna. Con un approccio frammentato, provocatorio e immaginifico, il biopic dedicato all’autore irlandese si concentra, narrandolo e racchiudendolo in capitoli, sui momenti più segnanti, nel bene e nel male, della sua vita, rappresentati dai legami e dalle relazioni chiave, dalle persone per cui provava sentimenti importanti e che tenevano a lui ma che allo stesso tempo lui sentiva di aver irrimediabilmente ferito.
Partendo da un teatro, spazio pubblico per eccellenza, nel momento in cui la carriera dello scrittore viene celebrata attraverso l’assegnazione, a Stoccolma nel 1969, del prestigioso premio Nobel per la letteratura, vediamo l’uomo reagire a un evento che considera una “catastrofe” rifuggendo una fama insopportabile e scappando via, rifugiandosi in un non-luogo freddo e misterioso, una cava abbandonata (in parte naturale e in parte scavata dalle attività estrattive), un antro della mente, che quasi richiama un ipotetico set scenografico per “Aspettando Godot”, dove Beckett darà vita a un monologo come fosse “allo specchio” perché rivolto a un altro se stesso (un doppelgänger che diviene suo confessore, un altro sé meno severo e incline alla solitudine o la sua coscienza sincera e spietata al tempo stesso?). Lo spettatore però assisterà a un vero e proprio dialogo tra due persone-personaggi quasi identici ma non uguali, realizzato non senza difficoltà tecniche, registiche e attoriali (Byrne ha recitato davanti a un green screen immaginando di rivolgersi a se stesso), che disquisiscono a proposito di chi avrebbe dovuto essere il più meritevole destinatario del premio in denaro ricevuto con il Nobel.
Sarà il pretesto per far riemergere, raccontare e rielaborare, tramite l’utilizzo dei flashback, le tappe salienti dell’esistenza: dal rapporto contrastato con la madre, rigida e anaffettiva, agli anni come volontario nella resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, e poi gli amori, i tradimenti, le amicizie, le riflessioni filosofiche e letterarie, il rapporto con il gigante della letteratura James Joyce, di cui era traduttore nella Parigi prebellica.
Presentata fuori concorso al 41^ Torino Film Festival, l’opera di Marsh, uscita a dieci anni di distanza dal successo commerciale che racconta la biografia di Stephen Hawking, La teoria del tutto, non ne eguaglierà probabilmente la fama e il successo, ma ha il merito di essere un film non convenzionalmente biografico che rispetta l’originalità e l’intraprendenza surreale di un intellettuale che ha segnato profondamente il teatro e la scrittura, all’apparenza egoista e a tratti ironico, mettendone alla luce i lati nascosti e i tratti poco noti della sua personalità. Gran parte girato in bianco e nero, il film vanta un ottimo cast e l’interpretazione di Gabriel Byrne, attore magistrale con all’attivo numerosissime interpretazioni, è sicuramente l’elemento più lodevole e di maggior rilievo dell’opera.
Loredana Iannizzi