«Se solo potessi andare in letargo»: è da questa frase, pronunciata dal fratello piccolo del giovane protagonista Ulzii, che trae ispirazione il titolo italiano di questo film, sensibile opera prima della regista mongola Zoljargal Purevdash. La vita di Ulzii e della sua famiglia è rigida quanto l’inverno intorno a loro: stipati nella loro yurta (la tradizionale abitazione della popolazione nomade della Mongolia), faticano a scaldarsi e sopravvivere i quattro giovani fratelli orfani di padre, cresciuti con fatica da una madre alcolizzata e affranta.
Ma per gli esseri umani, andare a dormire come gli orsi d’inverno equivale a morire e così la ragazzina racimola qualche soldo facendo braccialetti colorati mentre Ulzii va a scuola, guadagna pochi tugrik (moneta locale) aiutando il vicino nelle consegne di carne, rubacchia legna e gomme da bruciare nella stufa, vende le sue scarpe da ginnastica per pagare il carbone, studia di notte con la coperta fin sulla testa. L’indigenza della sua condizione non gli impedisce però di sognare un futuro più luminoso: Ulzii ha infatti tutte le doti per partecipare a un concorso di fisica che gli consentirebbe di ottenere una borsa di studio per frequentare l’università e cambiare così le sorti della sua vita e quelle di tutta la sua famiglia.
Ma, come insegna Virginia Woolf nel suo celebre saggio Una stanza tutta per sé, è necessario avere spazi propri, fisici e mentali, per poter esprimere liberamente la propria creatività e individualità. Seppur l’autrice faccia riferimento in particolare alle mancate opportunità delle donne nei primi anni Venti del Novecento, la tesi sostenuta è universale: solo quando si ha uno spazio di libertà e di autonomia, si potrà esprimere appieno il proprio potenziale artistico e intellettuale. E infatti il momento critico del film avviene quando Ulzii sarà costretto a sacrificarsi per la sopravvivenza sua e dei suoi fratelli, abbandonando momentaneamente la scuola, il suo luogo di indipendenza ed emancipazione, per andare a lavorare.
La regista si avvicina a questi giovani protagonisti con rispetto e senza giudizio, osservandoli da lontano e con la macchina da presa perlopiù fissa, ricordando spesso una tipologia di regia documentaristica più che di fiction. Nell’intenzione di Purevdash c’era la necessità di fare un film che la sua gente potesse capire e apprezzare: «Volevo fare un film su un adolescente che vive nel quartiere della Iurta (a Ulan Bator) e sogna un futuro luminoso ma è fortemente influenzato dal rapporto con la sua famiglia e dalle sue condizioni sociali. Volevo che la mia gente capisse, sentisse e abbracciasse ogni lotta e gioia reciproca attraverso questo film». Ci sarà riuscita?
Presentato in anteprima al 76º Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard, l’opera è il primo film mongolo a essere inserito nella selezione ufficiale del prestigioso festival.
Carolina Zimara