La notizia è che Quentin Dupieux ha fatto un film “convenzionale”…da intendere in questo caso in un’accezione positiva. Il regista francese, ancora poco noto in Italia, è solito realizzare opere al limite dello sperimentale, che giocano senza freni su assurdo e nonsense, tali da rendere difficile riassumere la loro trama. Non è così per Yannick, che addirittura (in riferimento alla filmografia del cineasta) propone un chiaro sviluppo narrativo e innesta un’atmosfera di tensione in crescendo. Allo stesso tempo, il film non è una svolta a 360° per Dupieux, che piuttosto, confermando la breve durata delle sue opere (qui appena 67 minuti), incanala in un lavoro più accessibile e leggibile i tratti della sua poetica, come già fatto in Mandibules (2020) rispetto al quale Yannick è un’apertura ancora ulteriore verso il pubblico. Come confermato dal risultato ottenuto al botteghino: dopo il passaggio in concorso al Festival di Locarno, quest’ultimo ha infatti incassato oltre tre milioni di euro in Francia.
Il protagonista del titolo è un semplice spettatore di una commedia a teatro che all’improvviso si alza e ferma la rappresentazione, sostenendo di non apprezzare quanto sta vedendo. Decide così di prendere in mano la situazione, e da lì a poco terrà in ostaggio il pubblico in platea e gli attori sul palco.
Yannick è dunque un esplicito lavoro metatestuale, che mostra un ribaltamento delle forze in gioco: chi a teatro è solitamente deputato a un ruolo passivo, qui ne rivendica e assume uno attivo, diventando una sorta di regista per gli attori e di sequestratore per il pubblico presente. Ma, rispetto al fuorviante sottotitolo italiano, non c’è nessuna vera e propria rivincita: il protagonista è un elemento di disturbo il cui essere apparentemente fuori dal mondo serve per far emergere le idiosincrasie, i lati peggiori di tutti: attori, spettatori e soprattutto se stesso. Quello del film è un microcosmo variegato che diventa rappresentativo della società intera, con persone che non potendo scappare devono fare i conti con loro stesse. Dietro la dimensione ludica dell’operazione, si nasconde dunque una precisa e amara visione del mondo.
Si ride infatti a denti strettissimi per il bestiario umano che Dupieux mette in scena: ad ogni nostra risata subentra un senso di disagio, per come in fondo ci scopriamo vicini a uno o più personaggi. Non c’è via d’uscita, né conforto nello sguardo del cineasta, che, con sorriso sardonico, lascia prosperare il caos all’interno del suo racconto, osservandolo quasi sconsolato.
Luca Sottimano