È stata una strada imprevedibile, sterrata, ad aver portato il neorealismo italiano nel cuore della Persia. La Nouvelle vague iraniana ha infatti tentato di riprendere una radicale riflessione sul cinema, proprio dove Rossellini & co l’avevano interrotta: non più attraverso la decostruzione “critica” del paradigma hollywoodiano, ma con una raffinatissima – e poetica – combinazione di elementi reali e di finzione. Non si può comprendere appieno Taxi Teheran, Orso d’oro all’ultimo Festival di Berlino, se non ci si riallaccia a questa filiazione iraniana del cinema europeo, di cui Abbas Kiarostami è il più eminente rappresentante, e Jafar Panahi – suo antico collaboratore – uno dei suoi più intelligenti continuatori.
In questo contesto, il riferimento alla realtà oscurantista dell’Iran contemporaneo diviene allora non aggirabile, ma al tempo stesso felice spunto per riflettere sul nesso realtà-finzione. Panahi – citando il Kiarostami di Dieci ‒ si finge taxista e ci porta per le strade di Teheran, dove assistiamo a una discussione sulla pena di morte, alla drammatica corsa di una coppia verso l’ospedale, alle più svariate allusioni al mondo del cinema. Panahi viene presto scoperto dai passeggeri, ma le storie sembrano cominciare proprio quando si svela l’artificio filmico: è tutta una messa in scena, per i personaggi, oppure le vicende sono reali, sebbene recitate? Oppure, Taxi Teheran è un documentario girato con gusto finzionale o un film di finzione che simula il documentario?
Ciò che emerge è l’immagine sfaccettata di un paese-prigione, dove è proibita ogni espressione artistica, e in cui povertà, paura e maschilismo si mescolano indistintamente. Ciò non significa però che Panahi tinga il proprio racconto di nero, denunciando direttamente l’impossibilità di produrre vero cinema nel suo paese: il film è infatti pervaso da un lieve ottimismo, ben evidenziato dal sorriso sornione del regista ‒ «è solo cinema, un ennesimo giro di giostra», sembra dirci – e dagli spassosi dialoghi con la sagace nipotina, aspirante cineasta. A questo riguardo, una menzione speciale merita la fugace apparizione di un brano di Shahram Shabpareh, improbabile divo pop di un lontano Iran pre-rivoluzionario (conosciuto in Italia grazie ad alcuni spassosi video apparsi su internet).
La cinepresa di Panahi resta insistentemente all’interno del taxi da lui guidato, quasi a volerci costringere a un tour de force dentro la realtà asfittica dell’Iran contemporaneo: i limiti della censura divengono limitazione percettiva, ma anche distruzione del labile confine tra realtà e documentarismo, qui disarticolato alla radice.
Nonostante qualche piccolo momento didascalico Taxi Teheran è un’opera coraggiosa, prima di tutto nella forma: è la forma a trasgredire ogni possibile censura, a rompere con i linguaggi consolidati e il senso comune. L’Iran che ci racconta Panahi sta tutto in quel piano fisso del cruscotto, con una rosa rossa, in grado, anche se preso violentemente d’assalto, di rivelare un inestirpabile afflato emancipatorio: l’annerimento del reale diviene schermo nero, suprema scelta stilistica di chi intende resistere, nonostante tutto.
Giulio Piatti