Dopo lo splendido Forza maggiore, nel quale si divertiva a dissezionare le contraddizioni del microcosmo familiare, il regista svedese Ruben Östlund, con The Square, vincitore della Palma d’oro a Cannes, dedica la propria attenzione al mondo dell’arte contemporanea: qui Christian, stiloso direttore di un museo che ha la propria sede nel palazzo dell’ormai – si presume – destituita monarchia svedese, è alle prese con il lancio di una nuova mostra, incentrata su un simbolo di fiducia verso il prossimo (un ‘santuario’ che ha la forma di un quadrato luminoso). Nel corso della preparazione della mostra – alla cui promozione collabora una strampalata agenzia di marketing specializzata in video virali – Christian subisce un furto che lo farà precipitare verso una crisi tanto privata quanto professionale.
Östlund mantiene intatto il proprio stile laconico, forte debitore di un altro grande regista scandinavo, Roy Andersson (You, the living e Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza): dialoghi e movimenti di macchina ridotti al minimo e grande fiuto per una comicità essenzialmente situazionale si uniscono qui a una curatissima sensibilità – quasi grafico-pubblicitaria – per l’inquadratura. The Square, tuttavia, gioca a carte scoperte: dove in Forza maggiore la discrasia tra principi morali e azioni compiute appariva come felicemente implicita, e giocata su toni ambigui, qui emerge con grande vigore una satira ‘dall’alto’ che condanna un mondo classista e votato all’individualismo, nel quale a quella cura denunciata ingenuamente dall’installazione artistica corrisponde una cronica insensibilità collettiva nei confronti dell’altro. Christian (significativamente mai giudicato, ma anzi profondamente amato da Östlund) è in questo caso il vettore di questa contraddizione, e la crisi che lo investe diventa la spia che ci comunica l’emergenza nella quale siamo immersi.
The Square non è così, in senso stretto, un film di satira sull’arte contemporanea (non ce ne sarebbe stato onestamente bisogno), ma squaderna temi più ampi: il film stesso si pone – dal punto di vista formale – come una performance nella quale le varie sequenze cercano insistentemente di isolarsi, a scapito di una narrazione lineare: oltre la verità e la finzione, Östlund sembra insomma imbastire un enorme psicodramma, soltanto apparentemente autoassolutorio, contro il suo stesso mondo, ossessionato da una limitante idea di bellezza e da una freddezza ‘spaziale’ ancor prima che emotiva.
Certo, molti sono i temi lanciati sull’agone (dal destino della tecnologia e della sessualità sino al problema del politically correct), spesso non adeguatamente sviluppati né perfettamente equilibrati nelle loro componenti estetiche, narrative e politiche; Östlund, maestro del riso amaro e trattenuto, ha tuttavia realizzato un film importante (con un paio di sequenze memorabili), frutto di una poetica in piena fase di sviluppo.
di Giulio Piatti