Un’agenzia di comunicazione deve occuparsi di selezionare dei modelli per una campagna promozionale, mentre un giornalista intervista i candidati chiedendo loro di mettersi in posa davanti alla telecamera. Tra gli aspiranti c’è Carl, un giovane con alcune esperienze nel campo della moda, che però, a detta dei responsabili dell’agenzia, dovrebbe cominciare a fare qualche iniezione di botox per togliere le prime rughe.
Inizia così l’ultimo film di Ruben Östlund, graffiante e ironico regista svedese che fa parte del ristretto club di chi ha già vinto due volte la Palma d’oro al Festival di Cannes. Se nel suo precedente The Square viene messo alla berlina il mondo dell’arte contemporanea spesso vuoto e solo sensazionalistico, in Triangle of Sadness si ha una spietata analisi dell’opulenza occidentale in cui i social, l’immagine di sé e la ricerca dell’esclusività più assoluta portano l’uomo alla distruzione.
Diviso in tre capitoli, introdotti ognuno da un sottotitolo descrittivo, l’ultima pellicola di Östlund segue il giovane Carl descrivendoci la sua relazione, basata sull’apparenza, con la influencer Yaya. La ragazza, che guadagna più di lui, come premio per la sua attività sui social, si è aggiudicata un viaggio per due su un lussuoso yacht. Sulla barca, la coppia fa la conoscenza di altre persone, arricchitesi nei modi più disparati (dai fertilizzanti alla produzione di mine anti-uomo), e di un equipaggio multi etnico che, sotto la direzione di Paula, è pronto a soddisfare ogni loro capriccio. Ma quando, a seguito di una improvvisa tempesta, la barca affonderà, Carl dovrà imparare a cavarsela su un’isola deserta assieme agli altri sopravvissuti.
Basato sul continuo ribaltamento dei ruoli – i modelli maschi che vengono pagati meno delle colleghe; i ricchi inadatti a trovarsi del cibo se privi di soldi – Triangle of Sadness è una spietata allegoria del mondo contemporaneo e dei rapporti di potere che lo abitano, in cui il regista costruisce geniali sequenze nelle quali è impossibile ridere nonostante l’amara drammaticità mostrata.
Come in una versione contemporanea de La grande abbuffata, Östlund spinge sull’acceleratore fino all’eccesso, per far esplodere mirabilmente davanti ai nostri occhi le gigantesche contraddizioni che viviamo anche senza rendercene conto. Incapace di rinunciare ai privilegi e senza altre risorse se non il proprio aspetto fisico, Carl diventa la metafora di ogni spettatore e di ogni persona che vive in un Occidente che si sta sempre più svuotando di contenuti e di valori, delegando tutto ciò che è impegno o fatica ad altri.
Non ci sono vincitori o vinti in Triangle of Sadness, ma solo persone che lottano, seppur in modo molto ridicolo, per sopravvivere.
Marco Mastino